Remigio Ratti, presidente di Coscienza Svizzera

Il gruppo di lavoro Frontiere e culture di Coscienza Svizzera – associazione che si propone di tener vivo il senso civico e la sensibilità per le sfide che il Paese si trova ad affrontare – ha tenuto una serie di serate di riflessione sulle conseguenze dei profondi cambiamenti che sta subendo il concetto di frontiera nell’epoca della globalizzazione. Sul tema affrontato abbiamo posto alcune domande al prof. Remigio Ratti, presidente dell’associazione.

Come mai questo interesse di Coscienza Svizzera per il tema della frontiera?

La nostra associazione si occupa dei problemi della società. La frontiera e l’evoluzione che sta subendo questo concetto sono catalizzatori di un mondo che cambia. È il nostro dovere di ricercatori affrontare questi cambiamenti, porre degli interrogativi. Gli strumenti per capire ci sono. Non ci sono le ricette per vivere. Il cambiamento è sempre un rischio. C’è chi è bene armato per affrontarlo, ed è più forte. Ma purtroppo la maggioranza reagisce “di pancia”: “Sto vivendo male, sta peggiorando la mia situazione, di chi è la colpa?”. Il nostro compito è di relativizzare le cose, senza cancellare l’esistenza dei problemi, ma cercando di individuare le strade per affrontarli.

Al momento, soprattutto in Ticino, i cambiamenti in corso sono vissuti piuttosto male. Quali sono le vie d’uscita da questa situazione?

Finora ci si è rifiutati di affrontare i problemi. Insistendo per anni sul “pericolo” dei frontalieri – vedi campagna “balairatt” e così via – non abbiamo risolto niente. Non abbiamo risolto niente neanche bloccando la metà dei ristorni dell’imposta alla fonte dei frontalieri ai Comuni italiani. Anzi, se vuole la mia opinione, ho una grandissima paura che ora Roma potrebbe rispondere abolendo statuto di frontaliere, e tassando i frontalieri come tutti gli italiani nel loro comune di residenza: così Roma aumenta le proprie entrate, mentre noi ci perdiamo tutto, e ci perderanno anche i frontalieri.
Perché il problema l’abbiamo visto da una sola parte. Quarant’anni fa si è fatto il giusto ragionamento: ci si è resi conto di aver bisogno della manodopera frontaliera, si è riconosciuto nei comuni limitrofi  insorgono costi sociali, e si è costruita una economia transfrontaliera. È un ragionamento che vale anche oggi, anche se le soluzioni vanno adeguate alla nuova situazione.

Saprà il Ticino sfruttare il potenziale esistente in questa regione transfrontaliera?

Si deve cambiare cultura. Finora il Ticino ha approfittato della sua posizione. L’esempio tipico è quello del contrabbando. Gli economisti definiscono questo tipo di vantaggio “rendita di posizione”, o, nel caso della disparità salariale “rendita differenziale”. E poi c’è la stabilità politica e sociale, che ha favorito la crescita della piazza finanziaria. Ma se viviamo in un campo di forze anche la posizione più forte può sciogliersi come un gelato al sole, e questo concerne tutti, non solo quello che perde il posto di lavoro o che subisce il dumping salariale. Viviamo in un periodo di grandi cambiamenti. Quando lo capiranno tutti – e adesso lo stanno capendo anche i direttori delle aziende e i politici –  forse sarà il  momento in cui si troveranno le soluzioni.

MA