Il titolo della grande azienda britannica cresce del 7%. Si prevede una possibile suddivisione in più entità sul modello delle filiali indipendenti, una strategia già sperimentata da Eni
Un incremento del 7%, il maggiore registrato negli ultimi due anni in una singola sessione, ha portato il valore di Bp ai massimi semestrali alla Borsa di Londra. L’influenza di Elliott ha immediatamente riacceso le congetture sul destino della grande azienda britannica, spaziando dall’idea di una frammentazione a quella di un’acquisizione completa da parte di una compagnia petrolifera internazionale, un’ipotesi che si ripresenta ciclicamente da oltre un decennio.
A questo punto, è difficile anticipare che direzione prenderanno gli eventi futuri. Tuttavia, l’arrivo di Elliott Investment Management – uno dei più grandi e combattivi fondi attivisti del mondo – ha decisamente cambiato la dinamica della situazione.
Quanto sia grande la quota acquisita da Elliott rimane un mistero: si tratta ancora di supposizioni, inizialmente riportate da Bloomberg sabato e successivamente confermate da fonti anonime anche da altri media. Tuttavia, conoscendo le abitudini del fondo di Paul Singer, l’acquisto di una partecipazione rappresenta solamente l’inizio di una battaglia che si preannuncia lunga e difficile, il cui scopo è spingere a un profondo rinnovamento dell’azienda britannica, attualmente in crisi e sottovalutata rispetto ai suoi concorrenti.
Dopo il rally di lunedì 10, Bp ha un valore inferiore ai 90 miliardi di dollari, circa la metà rispetto a Shell, il più grande conglomerato integrato d’Europa, considerato il principale candidato per un’eventuale acquisizione, un’operazione comunque complessa che richiamerebbe l’attenzione delle autorità antitrust e potrebbe incontrare l’opposizione del governo britannico.
Tra gli altri possibili interessati sono menzionati TotalEnergies della Francia, l’americana ConocoPhillips (che a differenza di ExxonMobil e Chevron non ha effettuato significative acquisizioni negli ultimi mesi) e l’ente emiratino Adnoc, di cui si sono diffusi rumor mesi fa riguardo un interesse per Bp.
Piuttosto che una vera e propria acquisizione, sembra più probabile un’intensificazione delle vendite di singoli asset – un processo già in atto – o forse la cessione di intere divisioni, dopo una separazione, imitando il modello delle “società satellite” utilizzato con successo da Eni. Quest’ultima strategia potrebbe essere quella preferita da Elliott per generare valore.
Secondo le stime recenti degli analisti citate da Reuters Breakingviews, il valore aggregato delle diverse divisioni di Bp potrebbe raggiungere i 193 miliardi di dollari, o 134 miliardi una volta dedotto il debito (un pesante fardello per la major britannica, che si attesta a 59 miliardi).
Le difficoltà di Bp verranno probabilmente confermate durante la presentazione dei risultati finanziari, prevista per martedì 11: l’azienda ha già preannunciato un impatto fino a 300 milioni sui profitti del quarto trimestre a causa del crollo dei margini di raffinazione. L’evento più atteso è tuttavia la presentazione del piano strategico, posticipato di due settimane, al 26 febbraio, e spostato da Londra a New York per un trattamento medico non specificato subito dal CEO Murray Auchincloss.
Il manager, alla guida dall settembre 2023 dopo il licenziamento di Bernard Looney, sta tentando di correggere il percorso dell’azienda, anche attraverso una riduzione dei costi, e di recente ha annunciato 4.700 licenziamenti. La sfida principale, però, consiste nel riorientare il gruppo verso le attività nel settore Oil & Gas, dalle quali Looney si era eccessivamente distaccato, convinto che la domanda di petrolio fosse già in calo.
Le energie pulite, che negli ultimi 5 anni hanno attratto un quinto degli investimenti in conto capitale di Bp, generano rendimenti inferiori. Le attività tradizionali nel settore petrolifero e del gas sono state invece trascurate, un errore strategico che ora risulta complesso risolvere.
Rispetto ai suoi concorrenti, Bp ha dovuto affrontare situazioni più complesse, che ancora gravano sul bilancio. È il caso del disastro della Deepwater Horizon, avvenuto quindici anni fa nel Golfo del Messico, che ha costretto l’azienda a pagare risarcimenti per oltre 65 miliardi di dollari, finanziati tramite dismissioni e indebitamento, e più recentemente la necessità di ritirarsi dalla Russia, una volta fonte di ricchi profitti grazie a una partecipazione in Rosneft e alla joint venture TNK-BP.
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