René Chopard, direttore del Centro studi bancari dell’Associazione bancaria ticinese

Nella parte italiana dell’Insubria abbiamo imprese con un forte bisogno di liquidità; nella parte svizzera, banche in cerca di nuove possibilità per far lavorare i mezzi loro affidati: da questa situazione dovrebbe per forza di cose nascere una promettente relazione d’affari. Il problema è che in questo caso c’è di mezzo una frontiera. Come uscirne? Lo abbiamo chiesto al prof. René Chopard, direttore del Centro studi bancari ticinese, autore, assieme al prof. Gioacchino Garofoli dell’Università dell’Insubria, dello studio, commissionato dalla Regio Insubrica, sulle possibili collaborazioni fra banche ticinesi e aziende del Nord Italia.

Le imprese italiane hanno la possibilità di far capo alle banche ticinesi per ottenere dei crediti?

La possibilità c’è nella misura in cui non ci sono dei vincoli dal punto di vista normativo che impediscono di farlo. Le esperienze fatte sono però estremamente limitate e puntuali. È interessante sottolineare che in relazione alle dinamiche alle quali siamo confrontati, e in particolare alla fiscalizzazione dei patrimoni finanziari, c’è una tendenza al riavvicinamento fra la finanza e l’economia. In questo contesto globale io penso che in un futuro ci sarà una maggiore attività nel rapporto fra la banca svizzera e l’azienda italiana, anche in un contesto più generale che va al di là dell’aspetto creditizio.

Cosa è risultato dal vostro sondaggio presso le banche ticinesi riguardo alla loro disponibilità di espandere l’attività creditizia anche in Italia?

Per ora l’interesse è ancora abbastanza “teorico”. Operativamente ci sono alcuni casi. In generale si sta a guardare le potenzialità di sviluppo di queste attività. C’è però una crescente richiesta da parte del cliente privato anche straniero della banca svizzera di considerare in misura crescente anche i bisogni della sua azienda. La tendenza è insomma di richiedere alla banca svizzera, oltre alla gestione del patrimonio privato e finanziario, anche dei servizi per la propria azienda. In questo senso, proprio in relazione al passaggio, da parte delle banche svizzere, dall’attività offshore all’attività onshore, la strada mi sembra abbastanza “tracciata”.

Qual’è il principale ostacolo per praticare questa strada su scala più larga?

Da una parte ci sono caratteristiche economiche e aziendali delle aziende italiane che sono diverse delle modalità di operare conosciute dalle banche svizzere. D’altra parte è notorio che il sistema bancario ticinese e anche svizzero in generale si è concentrato finora sulle attività di gestione patrimoniale, di gestione del patrimonio privato. Si tratta di stimolare l’incontro tra queste due poli. Come? Da una parte l’azienda italiana deve rispondere maggiormente alle esigenze della banca svizzera – in particolare diminuendo il numero di banche con le quali lavora, richiedendo alla banca un numero maggiore di servizi, magari anche arrivando ad accordarsi con la banca svizzera attraverso un accordo privato, come ad esempio un patto d’arbitrato. Dall’altra parte la banca svizzera dovrebbe aprirsi maggiormente a quelle che sono le attività collaterali del credito come elemento complementare all’attività di private banking.

MA